La digitalizzazione dei popoli indigeni del Brasile

L’accesso alle reti sociali online offre nuovi strumenti per rilanciare un’identità indigena plurale e dare slancio alle mobilitazioni sociali e politiche delle sue comunità.
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Un giovane indigeno registra un discorso con uno smartphone durante un Acampamento Terra Livre

Il seminario di Antropologia del digitale (locandina) è un ciclo di appuntamenti rivolti ai dottorandi e agli studenti magistrali del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione, a cura dei professori Alice Bellagamba, Paolo Grassi e Manuela Tassan dell’area antropologica di questo dipartimento. Il ciclo rientra nell’ambito del progetto di Dipartimento di Eccellenza 2023-2027. I primi quattro incontri sono stati affidati al ricercatore Paride Bollettin della Masaryk University (Repubblica Ceca), direttore del Centro Studi Americanistici “Circolo Amerindiano” dell’Università degli Studi di Perugia, il quale attraverso la sua esperienza ventennale di ricerca etnografica a contatto con il popolo amerindio Mẽbêngôkre ha offerto un punto di osservazione molto ravvicinato per mostrare come l’accesso dei popoli indigeni allo spazio digitale stia dando nuove forme di visibilità alla loro rivendicazione identitaria e un impulso inedito alle storiche battaglie indigene di riconoscimento ed emancipazione. Le quattro lezioni di Boscardin sono state ospitate dal corso di Culture e Società delle Americhe della Prof.ssa Manuela Tassan, dal corso di Culture e Società del Pacifico, tenuto dalla Prof.ssa Paola Schierano, dal corso di Antropologia Economica e dello Sviluppo del Prof. Mauro Van Aken e dal corso di Culture e Società dell’Africa della Prof.ssa Alice Bellagamba.

Rinegoziare un immaginario

Che effetto può farci l’immagine di una ragazza indigena che usa uno smartphone e indossa gli auricolari, come l’opera Cunhatain, musical anthropophagy (2018) dell’artista indigeno Denilson Baniwa? Si diventa meno indigene/i ad avere un laptop o un profilo sui social network? Oggi sempre più persone native del Brasile, soprattutto giovani, digitalizzate e con un percorso di studi accademici, trovano voce nella rete digitale per rispondere in prima persona a questa domanda e raccontare la storia, la cultura ma anche l’attualità delle loro comunità. Accedendo alle piattaforme digitali, i popoli indigeni possono aggiornare attivamente la propria rappresentazione e riallinearla all’effettiva realtà contemporanea che stanno vivendo. Il mezzo digitale diventa quindi una potente leva per mettere in discussione un immaginario appiattito, di stampo coloniale, che il resto del mondo conserva di queste comunità: persone poco vestite, nascoste nelle foreste e organizzate in gruppi sociali rigidamente gerarchici, privi di leggi e tecnologie. Si è consolidata così in cinque secoli una percezione dicotomica tra il buon selvaggio allo stato naturale, funestato dai popoli conquistatori, e il cattivo selvaggio non civilizzato che può essere facilmente disumanizzato.

La stessa parola antropofagia nel titolo dell’opera menzionata è invece ben rappresentativa della storica capacità dei popoli indigeni di metabolizzare le culture e gli strumenti con cui entrano in contatto: nel caso dell’approdo al mondo digitale, in questo mondo stanno sperimentando nuove forme creative con cui raccontarsi e mobilitarsi.

“Quando si parla di indigeni bisogna ricordarsi che ci riferiamo a un mondo eterogeneo composto da 305 popoli, che parlano almeno 170 lingue diverse e sono distribuiti in modo disomogeneo nel territorio del Brasile.” ha spiegato Bollettin. “Ora che sono le persone indigene a restituire in rete un’immagine di sé, anche grazie al fatto che, contrariamente all’opinione diffusa, almeno la metà della popolazione indigena vive nelle città e ha regolare accesso a internet, si sta restituendo anche tridimensionalità e unicità alle storie dei loro popoli. E così oggi per un non indigeno è più facile scoprire che la storia delle interazioni tra indigeni e colonizzatori può cambiare enormemente a seconda del popolo considerato, della sua posizione geografica e di quanto tempo è trascorso dal primo contatto. Un popolo indigeno delle coste, che ha subito espropri e schiavitù già a partire dal sedicesimo secolo, ha storie e sensibilità diverse rispetto a un popolo amerindio dell’Amazzonia interna, che interagisce da molto meno tempo con la società egemonica del Brasile”.

Una nuova consapevolezza

La storia dei popoli indigeni è indissolubilmente legata alle stragi commesse dai coloni per appropriarsi delle loro terre, né la schiavitù, abolita in Brasile solo nel 1888, in cui sono stati ridotti nelle stesse terre di cui venivano espropriati. Nei secoli l’oppressione sistematica agita dai popoli conquistatori ha reso l’essere indigene/i in Brasile un retaggio scomodo anche solo da dichiarare, perché esponeva a discriminazioni e al rischio concreto di morire. Con questi presupposti è interessante notare come, dal 2010 al 2022, le persone indigene censite in Brasile siano quasi raddoppiate, arrivando a quasi l’1% della popolazione. Non si tratta di un aumento demografico ma di una maggiore diffusione del bisogno di rivendicare, anche a livello istituzionale, la propria discendenza indigena.

L’accesso al digitale ha anche permesso di connettere per la prima volta popoli indigeni geograficamente distanti aiutandoli a riconoscere questioni politiche condivise e a organizzarsi per portarle avanti. Il risultato forse più emblematico di questa inedita capacità di fare rete online è oggi l'Acampamento Terra Livre, giunto nel 2024 alla sua ventesima edizione, dal 22 al 26 aprile a Brasilia. Si tratta di una mobilitazione nazionale di tutte le comunità indigene brasiliane, che ogni anno si radunano per dare visibilità alle loro istanze. Nel 2020, quando per la pandemia non fu possibile radunarsi dal vivo, l’organizzazione APIB, Articulação dos Povos Indígenas do Brasil, che fu costituita nel 2005 a seguito del primo Acampamento come punto di riferimento centralizzato di tutti i popoli indigeni, investì grandi energie per portare il raduno online. L’idea funzionò e fu soprattutto l’occasione per molte indigene e indigeni di acquisire consapevolezza, per la prima volta, sulle possibilità offerte dalle reti digitali nel conferire una voce pubblica al movimento indigeno.

La cinepresa è la nostra arma

Un interessante excursus offerto da Bollettin ha riguardato la capacità, antropofagica appunto, dei popoli indigeni di avvicinarsi agli strumenti fotografici e di registrazione video e di usarli per fare attivismo politico, una capacità già riscontrabile nel corso degli ultimi 50 anni. Conoscere questo fenomeno storico permette di capire che la partecipazione odierna alle interazioni digitali, per esempio sui social network, non rappresenta una dispersione dell’identità indigena ma è in continuità con la sua tipica capacità di adottare nuovi strumenti comunicativi e integrarli nelle sue strategie di mobilitazione.
In questo senso è emblematico un episodio del 1987: una rete televisiva inglese che stava girando un documentario sulle culture in via di estinzione fu convinta, con la mediazione dell’antropologo e attivista Terence Turner che dal 1962 lavorava a contatto con il popolo Kayapo, a donare delle telecamere ad alcuni Kayapo in cambio dell’accesso ai loro villaggi. L’intuizione di Turner era che gli indigeni avrebbero saputo sfruttare il mezzo filmico per raccontare la propria vita, testimoniare le ingiustizie perpetrate nei loro confronti o le promesse tradite dei politici non indigeni di risollevare la loro condizione di marginalità e oppressione. La presa di coscienza delle potenzialità del mezzo filmico portò Turner a istituire nel 1990 il Kayapo Video Project, con l’obiettivo di dotare la comunità di ulteriori attrezzature ma anche delle competenze necessarie per realizzare prodotti filmici di qualità, che riuscissero a veicolare efficacemente il loro messaggio politico a un pubblico non indigeno.

Tecnosciamani

Negli ultimi quindici anni la produzione multimediale indigena si è arricchita di progetti cooperativi che, avvalendosi di nuove professionalità tra le persone indigene come il giornalismo e la ricerca accademica, hanno consolidato nuove modalità narrative per divulgare notizie sugli indigeni e sui loro territori. A questo si è aggiunto il contributo degli indigeni più giovani: con i loro contenuti digitali sulle piattaforme di streaming e di social network si posizionano alla frontiera tra il mondo indigeno e la società digitalizzata, definendosi dei nuovi sciamani. Se nella tradizione indigena lo sciamano è la figura che sa mettersi in dialogo con altre realtà, il/la giovane tecnosciamano/a raccoglie in sé l’identità del suo popolo e la racconta al mondo non indigeno, spesso scavalcando le persone più anziane, tradizionalmente portavoce della cultura indigena, e attualizzando le loro storiche battaglie. Blogger, influencer e youtuber indigene/i non solo divulgano il proprio bagaglio culturale di appartenenza, ma analizzano criticamente i parallelismi tra il colonialismo di ieri e l’attuale egemonia politica, economica e culturale dei non indigeni in Brasile. Ne è un esempio l’attivista e influencer Cristian Wariu, che spesso si definisce un guerriero digitale proprio nell’accezione di colui che si avvale del multimediale e della rete come armi a difesa del suo popolo. Di grande impatto è anche l’intersezione, nelle piattaforme online, delle lotte indigene con altri fronti di lotta, per esempio l’ambientalismo e il transfemminismo, che di rimando influenzano la sensibilità indigena. D’altra parte questa visibilità online impedisce di appiattire le persone indigene in un unico inquadramento politico, che il senso comune vorrebbe unanimemente ambientalista e anticapitalista. Demistificare l’identità indigena significa anche riconoscerne le sfaccettature e le sue diverse visioni del mondo in relazione con l’attualità, alla stregua di quello che si riesce a fare, molto più facilmente, con le persone non indigene. Ne è un esempio la youtuber Ysani, giovane donna del popolo Kalapalo, quasi 800mila iscritti al suo canale e un’aperta posizione politica a sostegno di Bolsonaro.

La risoggettivazione del patrimonio indigeno

Tradizionalmente le principali battaglie portate avanti dagli attivisti indigeni riguardano la rivendicazione delle terre espropriate e la tutela del diritto alla stessa esistenza dei loro popoli. Le piattaforme online stanno tuttavia favorendo uno sguardo più ampio di rivendicazione dell’intero patrimonio indigeno, dove corpi, cultura e territorio sono profondamente interconnessi e concorrono insieme a definire l’identità indigena. Il movimento di rivendicazione dei nativi produce così istanze di valorizzazione e salvaguardia culturale oltre che territoriale, che si sono imposte nel discorso nazionale al punto che il Padiglione del Brasile alla Biennale Arte 2024 ospiterà una delegazione di artiste e artisti appartenenti ai popoli indigeni del Brasile, tra cui anche Baniwa, guidata dall’artista Glicéria Tupinambá. I membri della delegazione sono stati interpellati sia come autori in mostra sia come curatori della mostra stessa ed è un fatto senza precedenti se si pensa che il patrimonio artistico indigeno che ha raggiunto i circuiti culturali internazionali è da sempre estetizzato e interpretato attraverso uno sguardo non indigeno, il quale tradizionalmente vede nell’arte piumaria indigena l’estratto più appariscente e iconico di questo bagaglio culturale, trascurando molto altro.
Bollettin ha riportato, come esempio di questa riappropriazione culturale, le interessanti conseguenze di una recente visita organizzata per un gruppo di persone del popolo Kamayurá al museo di archeologia ed etnologia della Universidade Federal da Bahia, che ospita un’importante collezione di manufatti Kamayurá realizzata dall’antropologo Pedro Agostino. In quell’occasione Bollettin scoprì, insieme al direttore del museo Marco Tromboni, che alcuni oggetti non erano stati valorizzati in conformità con la sensibilità e la storia dei Kamayurá, o che erano stati accostati impropriamente ad altri manufatti senza aver verificato la coerenza del risultato. L’errore è tipico di quando una civiltà viene rappresentata senza dare un ruolo attivo alla civiltà stessa nell’esprimere i propri significati. Ne scaturì un progetto di cooperazione tra museo e Kamayurá per riformulare la collezione e risemantizzarla ascoltando chi ne deteneva la conoscenza più diretta.

Alle iniziative di recupero e valorizzazione del patrimonio indigeno si accosta anche la consapevolezza di abitare il presente e di poter immaginare il futuro, per diffondere il bagaglio culturale dei popoli nativi non in chiave archivistica ma come un insieme vivo che si arricchisce nel tempo. Ne è stata un esempio la mostra Science Fiction(s) If There Were a Tomorrow al Weltmuseum di Vienna. Curata dall’antropologa Claudia Augustat, non indigena, la mostra ha raccolto i tentativi di vari artisti indigeni di immaginare come sarà l’indigena/o del domani, in contatto con la propria cultura ancestrale ma anche contaminata/o da tecnologie digitali e suggestioni virtuali. Un lavoro di fantascienza formulato da comunità che storicamente non hanno mai avuto voce in sceneggiature e romanzi ambientati nel futuro.

Decolonizzare l’epistemologia

Con la mobilitazione nelle reti digitali gli indigeni hanno oggi la potenza espressiva per rivendicare la loro visione del mondo e promuovere il loro modo di produrre conoscenza. L’idea centrale di queste iniziative, concomitante con l’approdo dei primi indigeni a posizioni di ricerca e insegnamento universitari, è che se le conoscenze indigene non sono minori di quelle occidentali allora devono essere integrate nell’educazione dei discendenti indigeni e demistificate in quella dei non indigeni, in modo da esercitare concretamente il diritto alla diversità introdotto nella costituzione brasiliana nel 1988. La presenza indigena nel panorama culturale brasiliano e internazionale passa quindi anche per la promozione dei metodi conoscitivi indigeni, che sono tendenzialmente meno irrigiditi di quelli occidentali nella dicotomia tra teoria e pratica e danno molta importanza all’apprendimento tramite l’indagine empirica. Il ricercatore João Paulo Barreto, del popolo Tukano, uno dei primi PhD indigeni e vincitore nel 2022 del premio per la miglior tesi brasiliana in antropologia e archeologia, ha parlato dell’urgenza di decolonizzare l’epistemologia ripensando l’università come una multiversità, che ammetta tecniche di concettualizzazione e forme di espressione linguistica da una pluralità di culture. Lo stesso fare etnografico può così indigenizzarsi, per usare un’espressione di Bollettin: non è più solo l’antropologa/o a entrare in contatto con una comunità per assecondare le proprie domande di ricerca, ma al contrario i popoli nativi mobilitano spontaneamente la ricerca per produrre in modo partecipato evidenze e interpretazioni su un tema proposto dalle stesse comunità. Bollettin ha pubblicato di recente un paper in collaborazione con i Mẽbêngôkre sulle loro lotte di rivendicazione della terra indigena Trincheira-Bacajà e ha evidenziato come il processo di confronto per l’elaborazione e la stesura dell'articolo sia avvenuto principalmente su Whatsapp, con tutti i rischi che questo comporta in termini di volatilità delle informazioni, largamente compensati, però, dalla capacità delle app di messaggistica di integrare una miscela di testi, foto, audio e video. Un altro esempio di come il digitale faciliti lo scambio di idee e si trasformi in un laboratorio collettivo in cui i popoli indigeni elaborano le proprie tensioni identitarie e le esportano in tutti gli altri mondi. Tecnosciamanesimo, per l’appunto.

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