Inside ESC PhD – Eugenia Campanella

Nell'ambito delI racconto dei dottorandi e delle dottorande del PhD in Educazione nella Società Contemporanea segnaliamo l'intervista a Eugenia Campanella, psicologa al secondo anno del suo dottorato
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Che cosa c’entra la psicologia con le scienze sociali? Eugenia Campanella è psicologa al secondo anno del suo dottorato in Educazione nella Società Contemporanea (ESC) presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa” di UniMiB e ci risponde che questi due mondi disciplinari si intersecano in più di un punto, perché la salute mentale richiede qualità della vita. Tuttavia le pratiche di cura della salute mentale sono ancora troppo focalizzate sulle manifestazioni cliniche della sofferenza e non danno il giusto peso ai problemi sociali ed economici che spesso sono cause di quella sofferenza. Dialogando con lei sulla sua ricerca, Campanella ci ricorda che psicologi e psichiatri hanno un ruolo politico ineludibile nelle nostre società, perché nel perseguire il benessere psichico degli individui devono attivarsi anche per il miglioramento delle loro condizioni. E c’è chi, nel solco dell’eredità di Franco Basaglia, traduce in pratiche concrete questo importante messaggio.

Cominciamo dal tuo argomento di dottorato. Di che cosa ti occupi?

Faccio ricerca sugli ambulatori popolari in Italia: studio le pratiche che questi ambulatori mettono a punto per la cura della salute mentale comunitaria e gli effetti clinici e sociali di queste cure. Di solito i servizi degli ambulatori popolari sono rivolti a persone in condizioni di marginalità, che non hanno accesso al sistema sanitario nazionale. Di rimando analizzo i meccanismi di attivazione, partecipazione e mutualismo che queste realtà attivano nella popolazione, ma ci tengo a precisare che il mio rimane uno sguardo clinico.

Ti riferisci alla tua formazione?

Sì, mi piace definirmi una psicologa clinica che per fare il suo lavoro si inserisce necessariamente in un contesto sociale. Mi sono infatti specializzata in psicologia clinica ma già per il tirocinio post-laurea mi sono trovata a lavorare in un centro di neuropsichiatria territoriale nella periferia di Milano. Ho sempre avuto in mente la scuola basagliana nel considerare la salute mentale come una condizione multifattoriale, che risente anche della condizione socioeconomica della persona: l’indagine clinica sulla sofferenza psicologica è inevitabilmente incompleta se non tiene conto che la salute mentale non è determinata unicamente dai processi mentali, intrapsichici, dell’individuo, ma anche dalla qualità concreta della sua vita, dalla ricchezza delle sue relazioni, dalle sue possibilità materiali di autorealizzazione. È un tema che mi sta a cuore da sempre e che mi ha portata ad avvicinarmi negli anni a molte iniziative nate dall’attivismo e dal mondo delle associazioni, quel mondo informale, nel senso di non istituzionalizzato, che tuttavia in tema di salute mentale ha un concreto presidio tra le persone, rimane cioè a stretto contatto con le comunità e con i loro bisogni.

Sembra quindi naturale che tu ne abbia fatto il tema del tuo dottorato.

In realtà il mio arrivo al dottorato è stato piuttosto casuale. Dopo aver lavorato per vari anni come psicologa, ho collaborato con il dipartimento di filosofia della Statale di Milano per ricerche sul diritto allo studio delle persone con disturbi dell’apprendimento e disabilità. In quel periodo mi sono specializzata nella stesura e realizzazione di progetti europei, soprattutto in tema di apprendimento e metacognizione. Accade spesso tra gli psicologi di lavorare con l’apprendimento e infatti anch’io mi sono avvicinata alla pedagogia e al suo approccio integrato sullo sviluppo dell’individuo. Nel realizzare questi progetti ho anche capito come il mondo accademico possa, e quindi debba, mettersi attivamente al servizio della società, proponendo soluzioni innovative ai problemi delle persone, che siano efficaci perché corroborate dai risultati della ricerca.
Sulla scia di questi progetti e anche della sensibilità che mi hanno trasmesso sono arrivata in Bicocca, nel Dipartimento di Scienze per la Formazione, a collaborare con il prof. Guido Veronese e il laboratorio He.Co.Psy che dirige. Abbiamo scritto il progetto TInGLE-Academia - Through an Intersectional and Gendered Lens to Equality in Academia, che è stato finanziato ed è tuttora in corso, che promuove le questioni di genere e l’intersezionalità nei contesti universitari. Da lì una mia collega mi ha suggerito di iscrivermi al dottorato, come naturale prosecuzione del mio percorso. Ci ho pensato su e mi sono detta che, se avessi deciso di candidarmi per il dottorato, l’avrei fatto su un progetto che mi stesse a cuore e nel quale potessi mettere a frutto le esperienze accumulate. Era il 2022, la pandemia aveva messo a nudo, in modo esplosivo, molte mancanze istituzionali in tema di strategie di contrasto alla sofferenza psicologica. Avevo partecipato a diverse iniziative di ambulatorio popolare che dal basso cercavano di compensare queste mancanze, così per il concorso di dottorato mi sono ispirata a quell’esperienza e ho portato un progetto di ricerca che si prefiggeva di categorizzare e mappare gli ambulatori popolari in Italia. All’inizio doveva essere uno studio prettamente quantitativo, anche per un mio retaggio professionale, ma gradualmente l’ho integrato con metodi qualitativi.

Inizialmente non avevi valutato di utilizzare metodi qualitativi?

La psicologia clinica è oggi fortemente basata sull’analisi dei dati quantitativi, così all’inizio avevo immaginato un approccio analogo: un censimento sistematico degli ambulatori popolari italiani per categorizzarli, analizzare chi ne faceva parte e chi ne usufruiva, studiarne la distribuzione geografica, individuare eventuali correlazioni tra fattori diversi. Ero convinta che fosse l’unica via per estrarre informazioni convincenti, ma dopo i corsi del primo anno di dottorato mi sono ricreduta e ora lavoro con metodi misti. Ho deciso per esempio di non limitarmi alla mappatura, ma di approfondire tre ambulatori popolari con diversi livelli di istituzionalizzazione: un ambulatorio del tutto informale e autogestito, un ambulatorio semi-formale che ha rapporti di collaborazione con le istituzioni, e un ambulatorio in convenzione con il pubblico. In questi due anni ho studiato queste tre realtà attraverso interviste e focus group con l’intento di cogliere più a fondo il loro approccio clinico e le dinamiche interpersonali, sia tra chi eroga il servizio sia tra chi ne usufruisce. Sono ricerche che richiedono di passare molto tempo in quelle realtà. L’intento è di capire se possono rappresentare dei casi studio per nuove pratiche di psicologia e psichiatria, che incidano anche sulle reti sociali oltre che sui singoli individui, riconoscendo le forti interazioni tra benessere psicologico e inserimento nella società.

La domanda potrebbe suonare ingenua, ma che cosa hai scoperto finora?

Proprio in questo periodo sono nella fase di raccolta dei materiali e analisi progressiva di tutto il materiale raccolto, quindi mi mantengo cauta, ma ho potuto sicuramente riscontrare una sostanziale assenza dell’approccio basagliano nelle pratiche di salute territoriale. Gli ambulatori popolari creano reti di supporto psicologico e sociale proprio per colmare questo vuoto istituzionale. In queste realtà è facile rendersi conto che la sofferenza deve essere connotata e indagata non solo attraverso le sue espressioni cliniche ma anche sul piano sociale dell’individuo: non si può per esempio parlare di salute mentale delle persone giovani senza considerare le forti pressioni che subiscono dal punto di vista economico, abitativo, lavorativo, o l’effetto delle dinamiche individualiste e competitive della nostra società sui loro livelli di stress. Per esempio, Basaglia aveva capito che l’isolamento dal resto della società che si realizzava con i manicomi aggravava il disagio psichico e doveva essere superato. Ritengo che la rivoluzione di Basaglia sia stata storicizzata intorno alla grande conquista dell’abolizione dei manicomi, con la legge 180 del 1978, ma che ciò nonostante la psichiatria non ne abbia raccolto completamente l’eredità a livello di pratiche e di ricerche. Anzi, si può dire che sussistano ancora pratiche manicomiali per il contrasto al disagio psichico, basti pensare alle forme degradanti di detenzione agite in molte carceri italiane e nei centri di permanenza e rimpatrio, all’incidenza dei suicidi e degli abusi di psicofarmaci in quei contesti, o in generale a come gli effetti psichici della marginalità siano pressoché ignorati dalle agende politiche, e in Italia poco studiati dalla ricerca psichiatrica. Se per me è stato quasi un caso cominciare il dottorato, non penso che sia invece un caso che lo stia facendo in un dipartimento di scienze della formazione.

Hai trovato un approccio diverso in questo dipartimento?

Lo studio dei fattori ambientali che concorrono a una data condizione umana è parte integrante della ricerca pedagogica e l’ampiezza di questo sguardo è di grande ispirazione anche per chi come me si occupa di salute mentale. A mio avviso chi lavora oggi nelle scienze della formazione studia la sofferenza considerando tutti gli aspetti della vita di una persona, e può quindi offrire molti spunti alla mia categoria per sviluppare pratiche di supporto clinico ma anche sociale. È in questo dipartimento che ho scoperto teorie illuminanti come la Psicologia della liberazione di Ignacio Martín-Baró o la Pedagogia degli oppressi di Paulo Freire, che svelano le fitte connessioni tra la condizione psicologica dell’individuo e il contesto sociopolitico, culturale e storico in cui si svolge la sua vita. Lo sguardo pedagogico permette allo psicologo di uscire idealmente dall’intimità della seduta di psicoterapia e di riconoscere tutti gli altri fronti su cui bisogna intervenire per contrastare il disagio. In questo senso ritengo che lo psicologo che ha davvero interiorizzato la lezione di Basaglia non possa sottrarsi dal proprio ruolo politico, perché è consapevole che il benessere psichico passa anche per la mitigazione dei problemi sociali.

Questa visione dello psicologo e dello psichiatra come figure capaci di azione sociale e politica non è scontata, almeno nell’immaginario condiviso.

Basaglia diceva, citando Gramsci, che il pessimismo della ragione si combatte con l’ottimismo delle pratiche. Lo psicologo è un soggetto politico perché se lavora per la salute mentale delle persone, e a tal scopo ne interpreta i bisogni, non può sottrarsi dal fare pressione per garantirne la dignità e le possibilità di crescita. Seguo molto da vicino il tema della partecipazione nelle società contemporanee e nelle mie ricerche sugli ambulatori popolari ho capito per esempio che, nonostante la partecipazione politica abbia perso corporeità, manifestandosi più spesso nelle interazioni online che attraverso azioni fisiche, d’altra parte negli ambulatori popolari si instaurano processi informali di educazione alla partecipazione fisica: offrendo supporto al proprio territorio le persone diventano parte di un progetto comunitario che raduna soggettività diverse, per età e formazione. Non è raro incontrare psicoterapeuti in pensione che lavorano fianco a fianco con giovani attivisti, o anche persone di contesti culturali molto diversi che senza queste iniziative non avrebbero forse altre occasioni per interagire e confrontarsi. Ovviamente non sono sempre interazioni facili ma si creano trasmissioni intergenerazionali di conoscenze che di rimando allenano all’ascolto, alla cooperazione e alla mediazione. Sono esperienze reali di coesione sociale, che peraltro ritrovo anche a livello di dipartimento.

Ti riferisci agli scambi quotidiani con le persone del dipartimento?

Sì, il mondo della ricerca è un ambiente di facilitazione dello scambio di idee e deve promuoverlo attivamente. Già il fatto di lavorare in mezzo agli studenti mi mette in contatto con il pensiero della popolazione giovane e in quanto ricercatori e ricercatrici abbiamo il dovere di stimolare, attraverso iniziative concrete, il confronto con questa fascia di popolazione. Per esempio il mio laboratorio ha organizzato, tra le altre cose, una serie di Bell Hooks Lectures aperte agli studenti non solo del nostro dipartimento. Penso anche al seminario Si può pensare altro, si deve fare altro che abbiamo organizzato dal basso a novembre 2024 per i cent’anni di Franco Basaglia, anch’esso un bell’episodio di lavoro con gli studenti di vari settori. Nessun luogo di produzione di conoscenza può ignorare il proprio ruolo sociale di propulsore di idee e di promotore della partecipazione orizzontale al ragionamento collettivo. Trovo che lo scambio sia anche una delle parti più belle del processo di peer-review delle pubblicazioni scientifiche: apprezzo sempre le revisioni che non risparmiano suggerimenti e correzioni, perché è lì che metto alla prova i miei metodi e risultati e spingo il pensiero oltre il mio punto di vista. Forse anche il fatto di aver avuto altre esperienze lavorative precedenti al dottorato mi aiuta a gestire con maggiore serenità il processo di revisione e validazione dei manoscritti, lo vivo serenamente come un processo epistemologico in cui ricevere una correzione non equivale a una bocciatura. Tendo a sottrarmi alla logica ansiogena che nel gergo chiamiamo publish-or-perish, perché tengo a mente che il mio lavoro è finanziato da fondi pubblici e che pubblicare significa restituire alla società il risultato di questo investimento. La qualità di quello che pubblichi è il primo vincolo da rispettare e non deve essere sacrificata in nome della produttività. Inoltre, lavorando a stretto contatto con i contesti informali, nel mio campo il sapere non si distilla solo nelle pubblicazioni peer-reviewed, ma anche nelle iniziative non istituzionali, nei libri scritti da persone non accademiche, nelle stesse storie che puoi raccogliere nelle realtà partecipative.

Hai fatto esperienze accademiche anche in altre università italiane o estere?

Finora sono sempre stata a Milano. Non è stata una mia precisa scelta e oggi a quasi 33 anni riconosco che comporti dei limiti, soprattutto per chi fa ricerca sul campo, tra le persone. Sento che sia arrivato il momento di andare a fare esperienze fuori da Milano, e forse anche dall’Italia. Per il mio dottorato ho comunque creato e mantenuto rapporti con attivisti e ricercatori a Salonicco, alla University of St Andrews e alla The Red Clinic in Regno Unito, in Germania, Palestina e Kurdistan, tra gli altri. Inoltre il dottorato prevede un periodo all’estero, quindi sarà un passaggio dovuto, tuttavia rivendico il mio vantaggio di conoscere a fondo la realtà che sto studiando, perché radicarsi nella realtà che si studia è un presupposto importante per fare ricerca in questo campo. E poi, in chiave politica, focalizzarmi sul mio territorio significa ricordarmi che la marginalità è molto vicina a noi, non serve andare lontano. Benché la mia esperienza sia geograficamente limitata, nei miei scambi con le realtà all’estero ho trovato sorprendenti affinità nelle pratiche e negli approcci, al punto che posso spingermi a rilevare una dimensione internazionalista delle iniziative popolari di contrasto al disagio mentale: dobbiamo ispirarci alle pratiche di altri posti nel mondo, e raccontare le nostre, perché rispondono a problemi presenti in tutte le società umane.

Pensi di proseguire la tua carriera di ricercatrice?

Non ne sono sicura, temo che le logiche utilitariste che vedo insinuarsi nelle politiche italiane di stanziamento dei fondi per la ricerca rischino alla lunga di ignorare progetti come il mio, che contribuiscono oggettivamente alla società ma hanno uno scarso ritorno economico e tecnologico. Ritengo tuttavia che questo dottorato sia un tassello importante del mio percorso personale, che mi tornerà utile anche nell'eventualità di non poter proseguire le mie ricerche. La ricerca mi piace molto, e mi sento anche brava a fare questo mestiere, ma non ho l’ambizione di farci una carriera e mi sento più utile alla società come psicologa. Spero piuttosto che dal mio percorso emergano due messaggi: il primo è che, soprattutto da un dipartimento universitario che tra le altre cose forma i futuri insegnanti, quindi contribuisce attivamente alla salute della nostra democrazia, la ricerca che facciamo qui ha senso di essere fatta, perché porta messaggi e miglioramenti alla società civile, indipendentemente dal fatto che a farla sia io o altre persone. Per questo motivo merita di essere sostenuta al pari della ricerca medica e ingegneristica, e anche lo status professionale di noi dottorande e dottorandi meriterebbe maggiore riconoscimento. L’altro messaggio che vorrei far passare è che la psicologia può mettersi al servizio delle scienze sociali e deve incorporarne i metodi, rendendosi essa stessa una scienza sociale.

Pubblicazioni di Eugenia Campanella (Bicocca Open Archive)

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