Inside ESC PhD – Petar Lefterov

Il racconto dei dottorandi e delle dottorande del PhD in Educazione nella Società Contemporanea prosegue con un’intervista a Petar Lefterov, iscritto al 38° ciclo
Image
locandine_eventi_ESC

Il racconto dei dottorandi e delle dottorande del PhD in Educazione nella Società Contemporanea prosegue con un’intervista a Petar Lefterov, iscritto al 38° ciclo.

Su che cosa fai ricerca per il tuo dottorato?

Faccio ricerca sul multilinguismo nella scuola italiana. Sono al terzo anno e il mio percorso di dottorato si è gradualmente fatto duplice: da un lato studio le pratiche di sostegno all’acquisizione dell’italiano come seconda lingua (L2) in bambini e bambine con background migratorio; contemporaneamente ho realizzato, insieme alla Prof. Luisa Zecca che è mia tutor, un progetto mirato a valorizzare nel contesto scolastico la lingua e la cultura d’origine delle loro famiglie. Nella mia tesi sto integrando i due fronti.

Come ti sei avvicinato al tema del multilinguismo?

Per un mio interesse personale, la mia famiglia viene infatti dalla Bulgaria: viviamo in Italia ormai da più di vent’anni e ho studiato in Italia, laureandomi in UniMiB. Bisogna però ricordare che quando si parla di multilinguismo nella scuola non si intende soltanto la tutela delle lingue alloglotte, cioè esterne all’Italia, ma anche la valorizzazione delle cosiddette lingue di minoranza che si parlano nel territorio nazionale, le dodici lingue attualmente riconosciute e tutelate dalla legge italiana: sono quelle parlate dalle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate, alle quali si aggiungono il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo. Per esempio, una famiglia ladina o sarda che si trasferisce in Lombardia porta con sé un patrimonio linguistico e culturale che va preservato nei figli in età scolare. La scuola, anche in accordo con le indicazioni ministeriali, deve tutelare questa ricchezza perché è una componente della storia personale dell’individuo, che concorre a tutti gli effetti al suo sviluppo identitario.

Hai parlato di un progetto di valorizzazione del multilinguismo in ambito scolastico. Sembra una ricerca da fare sul campo, come del resto se ne fanno tante nel Dipartimento.

Sì, infatti dal punto di vista della metodologia è un progetto di ricerca-formazione, un tipo di ricerca empirica che si avvale della collaborazione diretta degli insegnanti. L’obiettivo della ricerca-formazione è portare innovazione trasformando l’agire degli insegnanti stessi, i quali attraverso la partecipazione alla sperimentazione sviluppano nuove competenze professionali e migliorano la riflessività circa il proprio ruolo. Con la ricerca-formazione non si tratta soltanto di testare e trasferire un ricettario di buone pratiche, ma di lavorare più a monte, sul cosiddetto habitus mentale dell’insegnante (un termine con cui in sociologia si indicano gli schemi di pensiero e le predisposizioni comportamentali di un individuo, ndr) affinché interiorizzi un atteggiamento e una sensibilità diversi, nel mio caso sul multilinguismo. Per il mio progetto abbiamo coinvolto dodici insegnanti di una scuola primaria nel quartiere San Siro a Milano per implementare delle pratiche di educazione multilingue che poi abbiamo sperimentato con 111 bambine e bambini del primo e secondo anno dell’istituto. Prendiamo per esempio la geografia: ci siamo chiesti come può il docente arricchire l’insegnamento di questa materia coinvolgendo i vari bagagli linguistici e culturali che ritrova nella sua classe, affinché siano integrati, e non rimossi, nello sviluppo di bambini e bambine plurilingue. Quando sono stato ammesso al dottorato avevo proposto un progetto diverso, sulla dispersione scolastica in bambini e bambine con background migratorio. Nel corso del primo anno ho svolto una scoping review, cioè una revisione della letteratura, per inquadrare il fenomeno della dispersione, ma durante quel lavoro ho cominciato a interessarmi all’utilizzo dell’educazione multilingue come strategia di supporto al percorso di studi di bambini stranieri, e così ho pian piano virato verso questo tema, come spesso accade durante il dottorato.

Questa è la tua prima esperienza di ricerca?

In realtà no, prima del dottorato avevo già ottenuto una borsa di ricerca, fu un approdo quasi fortuito. Dopo la triennale mi ero iscritto alla magistrale sempre qui in UniMiB, al corso di Scienze Antropologiche ed Etnologiche (oggi quel CdL si chiama Antropologia culturale e sociale, ndr). Uno degli insegnamenti che avevo inserito nel piano di studi era Pedagogia e culture dell’educazione, che ai tempi era tenuto dalla Prof. Susanna Mantovani, oggi docente onoraria del dipartimento. Volevo fare la tesi magistrale in Giappone, dove avevo già passato un periodo tra la triennale e la magistrale, e quando ascoltai un intervento della Prof. Mantovani sull’educazione nella società giapponese decisi che quello sarebbe stato l’argomento di tesi che mi avrebbe consentito di tornare in Giappone. Purtroppo non riuscii a ottenere il visto, quindi dovetti abbandonare quel piano: rimasi in Italia e scelsi invece una tesi magistrale sull’insegnamento dell’inglese nella scuola dell’infanzia (3-6 anni) come lingua seconda, con Mantovani come relatrice. Una volta conseguita la laurea magistrale fu lei a incoraggiarmi a continuare la ricerca che avevo avviato per la tesi, così mi candidai per una borsa triennale che infine ottenni. Finita la borsa sembrava ormai naturale proseguire iscrivendomi al dottorato in ESC, ed eccomi qua alla fine del terzo anno.

Ti piacerebbe continuare la carriera di ricercatore?

Mi interessa maggiormente la parte di lavoro che riguarda l’ideazione di interventi che mirano a produrre un cambiamento nella scuola e nella società. Probabilmente mi muoverò in questo senso, virando dalla ricerca a mansioni attinenti al terzo settore. Purtroppo mi pare che al momento il canale economico più florido per questo tipo di progetti sia quello dei bandi europei. A tal proposito partecipo già da tempo al progetto C4S – Communities for Science, ideato dalla Prof. Zecca per formare gli insegnanti a fare didattica inclusiva delle scienze nei bambini da 0 a 12 anni. Questo progetto ha già ricevuto un finanziamento dal programma europeo di ricerca e innovazione Horizon 2020, e per proseguirlo stiamo cercando nuovi fondi attraverso il programma Erasmus+ KA220, che finanzia le iniziative di cooperazione per l’innovazione e le buone pratiche.

Quando dici che l’educazione multilingue può essere una strategia di insegnamento utile nei ragazzi con background migratorio, di quale utilità parli?

Posso dire, con la dovuta cautela che serve quando si è ancora alla fase di analisi dei dati, che con l’intervento nella scuola di San Siro abbiamo riscontrato miglioramenti dal punto di vista del coinvolgimento, sia degli studenti che delle famiglie. Prima dell’intervento era emerso da un apposito focus group con le insegnanti che in generale i genitori con background migratorio partecipano poco al percorso scolastico dei figli e tendono a disinteressarsi alle occasioni di incontro con il personale scolastico. Dopo l’intervento abbiamo fatto un secondo focus group per rilevare eventuali cambiamenti ed è emerso che l’iniziativa aveva suscitato l’interesse di madri e padri, li aveva riavvicinati alla scuola e li aveva portati a informarsi sul percorso scolastico dei loro figli. Alcuni di loro si sono anche offerti di entrare in classe per dare un contributo alla trattazione di argomenti che riguardavano il loro paese d’origine. Il coinvolgimento è aumentato anche nei bambini: la novità portata dall’assegnazione di compiti multilingue ha dato una scossa alla partecipazione e alla proattività in classe; inoltre è stato interessante constatare come l’approccio multilinguistico abbia risvegliato anche nei bambini di madrelingua italiana un inedito interesse verso il dialetto locale della loro famiglia, come se avessero deciso di scoprire un patrimonio linguistico fino a quel momento ignorato. Infine, le insegnanti ci hanno riferito di aver cambiato modo di porsi rispetto ai bambini che fanno ricorso all’uso della propria lingua d’origine. Se prima tendevano a scoraggiare questi espedienti comunicativi, a seguito della sperimentazione hanno imparato a utilizzarli come canali comunicativi di supporto. In sostanza loro sensibilità sembra cambiata, proprio come previsto negli interventi di ricerca-azione. Abbiamo anche ricevuto ringraziamenti da insegnanti che adoperavano già pratiche informali di multilinguismo, senza però averne consapevolezza metodologica: nel secondo focus group alcune insegnanti mi hanno detto di aver ricevuto una sorta di validazione di certe tecniche delle quali sospettavano da tempo l’efficacia.

Non esiste un corpus di pratiche multilinguistiche in letteratura?

In letteratura sì, tanto che per il dottorato ho attinto molto dal filone della pedagogia del translanguaging, che può essere descritta come l'uso dinamico e creativo di tutte le risorse linguistiche di un individuo bi/plurilingue per comunicare e apprendere. Nella pratica, il translanguaging implica l'utilizzo di diverse lingue, o di elementi di diverse lingue, in modo fluido e integrato, eliminando così i confini di utilizzo di ciascuna. In Italia il translanguaging non ha mai avuto troppo seguito, ma segnalo un’esperienza di translanguaging svolta qualche anno fa nella provincia di Siena e documentata nel saggio “Imparare attraverso le lingue” di Valentina Carbonara e Andrea Scibetta (2020, ed. Carocci). Il translanguaging è invece una pratica già molto consolidata nei paesi anglofoni. Il termine stesso è stato coniato da un insegnante gallese, Cen Williams, per descrivere le tecniche che aveva elaborato con alcuni colleghi per recuperare la lingua gallese nel Regno Unito, dove l’uso egemonizzante dell’inglese mette a rischio ancora oggi la sopravvivenza delle lingue dei singoli regni. Il translanguaging ha avuto grande successo anche in Canada, tanto che oggi il massimo esponente di questa pratica è probabilmente il canadese Jim Cummins, che peraltro ha scritto la prefazione al libro che ho menzionato. Tuttavia, se è vero che ho preso le mosse dal translanguaging, forse dopo alcuni anni di ricerca sul tema ho maturato un’opinione più cauta sulla sua efficacia didattica. Per esempio, pratiche come il code switching (il gesto di passare dal parlare in una lingua a parlare in un’altra) e il code mixing (parlare adoperando nella stessa frase parole di lingue diverse), che sono largamente previste nel translanguaging, potrebbero minare l’obiettivo di raggiungere una competenza alta in ciascuna delle singole lingue adoperate. Il translanguaging, per esempio, potrebbe autorizzare un alunno a ovviare alla difficoltà di esprimere un concetto in lingua italiana ricorrendo all’inglese, ma così facendo l’alunno aggira quella difficoltà e alla lunga rischia di non raggiungere un livello di italiano sufficiente da essere davvero spendibile in società, per esempio nel mondo professionale.

Da ricercatore, che punto di vista puoi darci sulla promozione del plurilinguismo nella scuola italiana?

È uscita da poche settimane la bozza delle nuove indicazioni 2025 per la scuola dell’infanzia e Primo ciclo di istruzione e sebbene contenga dei passaggi quasi poetici sull’importanza del plurilinguismo in una società multiculturale come quella odierna, in realtà è evidente che le indicazioni a riguardo siano state di fatto ridimensionate al minimo sindacabile, almeno se confrontiamo la bozza diffusa dal Ministero dell’Istruzione e del Merito con le indicazioni attualmente in vigore, che risalgono al 2012: stando a quanto scritto nella bozza, per il MIM il plurilinguismo si concretizzerebbe al più nello sviluppo della competenza linguistica in inglese e gli unici riferimenti ad altre lingue sono riservati alle cosiddette seconde lingue comunitarie europee, francese, spagnolo e tedesco, che comunque negli ultimi anni stanno progressivamente scomparendo dalle programmazioni scolastiche. Tutte le altre lingue, sia comunitarie sia extra-comunitarie, sembrano non esistere più, almeno da quanto si legge nella bozza diffusa dal ministero. La mia percezione è che il tema non sia affatto sentito dall’attuale governo e la scomparsa dell’approccio pluralista e multiculturale che le indicazioni del 2012 adottano sul multilinguismo sembra confermarlo. Per esempio, rispetto alle indicazioni del 2012, nella nuova bozza è sparito ogni riferimento agli idiomi nativi e alla loro valorizzazione. In buona sostanza, nella società multilingue immaginata dall’attuale linea politica italiana sarebbe sufficiente padroneggiare l’inglese e tendo a collegare questa ristrettezza di vedute alla generale egemonizzazione anglofona nel mondo occidentale, che va di pari passo con l’egemonizzazione culturale degli Stati Uniti. È preoccupante per me rileggere le ricerche di Tullio De Mauro, o le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica del GisCel, pubblicate nel 1975, e osservare che 50 anni fa esisteva una consapevolezza molto più sviluppata sull’importanza del plurilinguismo.

Quella italiana non sembra una fase politica particolarmente propizia per le tue ricerche. Quali altri elementi di difficoltà puoi riportare dal tuo percorso di dottorato?

La raccolta dei dati nell’intervento a scuola è stata per me la parte più ostica. Le dodici docenti che ho coinvolto hanno dimostrato grande entusiasmo e disponibilità e hanno reso la parte del reclutamento molto incoraggiante, ma essere in un certo senso il regista del progetto, con tutto quello che significa in termini di coordinamento logistico, negoziazione degli obiettivi e assegnazione delle mansioni, è stato a volte molto faticoso. Forse è stato dovuto alla differenza di età tra me e le insegnanti, che potrebbe aver penalizzato la mia autorevolezza, ma durante alcune delle nostre interazioni non riuscivo a essere sicuro che le insegnanti stessero seguendo attivamente il progetto e ne stessero condividendo le finalità. Temevo che in cuor loro si limitassero ad assecondare le mie richieste per non ostacolare i miei obiettivi accademici. In alcuni frangenti, per esempio, è stato difficile esigere degli standard di qualità per la raccolta dei dati fatta dalle insegnanti, avvertivo una sorta di diffidenza sull’effettiva utilità di seguire il metodo elaborato da me e dalla mia tutor. Del resto, per estrarre informazioni da un contesto di persone bisogna prima riuscire a stabilire fiducia e ascolto reciproco, e questo compito toccava senz’altro al ricercatore, cioè a me. Nel complesso posso ritenermi comunque soddisfatto dei dati raccolti, siamo riusciti a lavorare bene insieme.

Non suoni come una semplificazione, ma questa diffidenza può essere forse dovuta alla difficoltà di tradurre la ricerca pedagogica in un effettivo cambiamento di pratiche?

Mettere in discussione il proprio modo di agire e di pensare da insegnante non è scontato, in generale nessun processo di revisione personale è immediato. Non si può generalizzare parlando di una diffusa reticenza degli insegnanti verso l’innovazione, anche perché, come ho detto, dal mio piccolo campione di insegnanti ho ricevuto semmai interesse ed entusiasmo in merito alla sperimentazione che abbiamo portato. Tuttavia so anche che oggi la ricerca didattica, complice il clima politico, non riesce sempre a proporre un cambiamento senza che appaia come un apporto di complicazioni al mestiere dell’insegnamento. Se questa diffidenza esiste, e non ho a disposizione dati per confermarlo, non può comunque essere attribuita unicamente a una presunta rigidità a priori degli insegnanti, penso che sarebbe un’interpretazione frettolosa. Semmai sarebbe un motivo in più per far capire, agli insegnanti ma in generale a tutti gli agenti del sistema-scuola, che la ricerca didattica non cala soluzioni dall’alto, concepite secondo chissà quale astruso costrutto teorico, bensì offre un modo strutturato e intersoggettivo di analizzare le sfide della scuola odierna, e basa la validazione del suo portato di innovazione non solo sul parere della comunità accademica, ma anche su quello degli insegnanti stessi. L’insegnante che comprende questo messaggio si avvicina inevitabilmente alla nostra ricerca con curiosità, senso critico e voglia di imparare.

Pubblicazioni di Petar Lefterov (Bicocca Open Archive)

Categoria news