di Cristina Palmieri
L’altro giorno è successo qualcosa che immagino capiti a tante famiglie a casa in smart-working. Smetto di lavorare: l’ora di pranzo è passata da un po’, ma stando sempre connessa il tempo ha una durata diversa. Ho la fortuna di avere un posto tutto mio per lavorare: questa è stata la ragione per cui anni fa, quando abbiamo cambiato casa, siamo venuti a stare qui. Salgo e vado in cucina, pensando al pranzo e… mio marito era impegnato in una call. Cucina trasformata in ufficio: microfono quasi ambientale, pc e blocchi per appunti sparsi sul tavolo. Tutto il resto (tracce di pranzo consumato velocemente) accatastato sul lavandino. Entro, prendo uno yogurt dal frigorifero, agguanto una mela e riscendo, pensando che ho fatto bene a mettere in taverna un bollitore per un tè. Nel frattempo chiedo a mia figlia, rinchiusa in camera sua, come va. Mi congeda con un saluto veloce. Torno a lavorare.
Una scena destinata a ripetersi, più o meno quotidianamente.
All’inizio non ci fai caso, ma poi ci pensi… e sono tante le cose che sto pensando a proposito.
La prima: siamo fortunati. La casa è grande, di fatto non ci si intralcia più di tanto. Però… c’è un però. La cucina non è più la cucina, la camera da letto non è più solo camera da letto, la taverna, il mio rifugio per scrivere e sottrarmi al mondo quando ho bisogno di concentrarmi, è diventata luogo di lavoro aperto a tutto e a tutti, soprattutto alle tensioni che affrontare questa emergenza produce. Poi certo, di sera la cucina ridiventa cucina e tutto sembra riprendere i suoi connotati e le sue funzioni, ma di giorno...
E non cambiano solo i luoghi, quei luoghi familiari che ci accolgono solitamente nel tempo dedicato solo alla casa. Cambiamo anche noi. Perché se è vero che ognuno di noi è una persona che assume un suo ruolo nei diversi contesti in cui vive, cosa succede quando questi contesti si mescolano, si mettono l’uno dentro l’altro? E cosa succede quando noi vediamo i nostri familiari sotto altre vesti? Non ho mai visto mio marito al lavoro, nel suo ufficio, con i suoi colleghi: quasi quasi ora, quando entro nella sua cucina-ufficio e lui sta parlando in chat, mi sembra di invadere il suo mondo, di spiarlo… e lui cambia. Non interessa in questo momento come, ma cambia. Eppure è sempre lui.
Si confondono i luoghi e si affastellano nuove esperienze di noi, delle nostre relazioni: magari la sensazione di straniamento dura per pochi secondi, poi la cacciamo via o se ne va. Ma non è “normale”.
La seconda cosa che penso è che allora occorre trovare un nuovo equilibrio, nuove distanze, nuove vicinanze, nuovi spazi privati e nuovi spazi in comune. Gli spazi, quelli fisici intendo, i locali di una casa, a volte aiutano, a volte no… Non è semplice. E poi questi equilibri nuovi cambiano anche loro nel tempo, addirittura nell’arco di una stessa giornata, magari senza che ce ne rendiamo conto…
Ecco, allora la terza cosa che ho pensato. Ho imparato ad apprezzare il fatto che la mia casa ha tante finestre: la luce e il fuori entrano, ed ha anche un piccolo giardino: la tartaruga, adesso che fa un po’ più caldo, è uscita dal letargo. Il ritmo della natura continua e lo tocco con mano, lo respiro. Ma cosa succede a chi abita in pochi metri quadri in una città come Milano, magari con bambini piccoli o adolescenti che non hanno un loro spazio? O con persone anziane, a cui la convivenza forzata per tutto il giorno sconvolge abitudini che consentono loro di riconoscersi nella casa che abitano? Come si ridefiniscono lì, in quelle situazioni, le aspettative reciproche, i ruoli, in altre parole le relazioni tra le persone? Il rischio è che il disagio esploda prima ancora che si abbia la possibilità di rendersene conto, perché può essere deleterio convivere in spazi ristretti, sapendo che non si può evadere e sperimentarsi altrove, vivere e trovare se stessi in altri luoghi. Ben lo sanno i detenuti.
E allora penso agli adolescenti, alle persone con disabilità, alle persone in situazione di disagio mentale e a tutti coloro che vivono in comunità o altri centri residenziali, e agli educatori e alle educatrici, ai coordinatori dei servizi residenziali: come stanno vivendo questa convivenza forzata? Questa inclusione coatta, dovuta a questa esclusione dai luoghi pubblici e di tutti, che certo è importante e fondamentale per preservare la loro salute e quella degli altri, ma che comunque è difficile e faticosa?
Ci viene detto di riscoprire la gioia di stare insieme ai nostri familiari, di passare il tempo a fare torte o a pulire la casa, ma forse questo è un punto di arrivo: come facciamo a imparare a gioire di queste piccole o grandi cose in questa situazione così nuova e così strana, perché parte da un vissuto di restrizione delle libertà individuali forse mai provato in maniera così comune e diffusa?
E tanti pensieri ancora sono lì per nascere. Ma torniamoci tra qualche tempo, quando gli equilibri saranno di nuovo cambiati e le relazioni saranno ancora diverse...