di Paola Colonnello
Ai tempi della guerra, le distanze non erano comprensibili osservando un planisfero, erano spiegate dall’attesa. L’attesa era un sentire sospeso, un’ansia prolungata che scorreva sottopelle; un countdown che si azzerava alla ricezione di una lettera in risposta a quella da noi spedita. La carta giungeva spesso sgualcita, dopo aver viaggiato attraverso il tempo. Oggi il pensiero scorre su tastiere, senza inchiostro o francobollo alcuno. L’ansia scompare in breve e nessuno unge buste che vorremmo conservare intatte. Vivo scambi digitali con anime che sento vicine come fossero la mia coscienza, amici che risiedono oltre il filo spinato che ha avvolto l’Italia e con cui, nell’era precovidiana, avevo condiviso gli abbracci che oggi ci vietano.
Mi scrivono da un’America che ha -6 ore di fuso e da un’Indonesia che ne ha +6. Un ricercatore di Shiraz si è proposto di insegnarmi a cucire mascherine con motivi floreali che aiutino ad allietare le giornate. Una bambina, in call dalla Guinea, mi ha chiesto, pensosa: “… e quindi adesso in Italia morirete tutti?”. No, dobbiamo solo attendere che il peggio passi. Il virus potrebbe accentuare le nostre solitudini e forse, da dentro, una candida voce ammetterà che, sotto la corona, «il re è nudo!». Per ora, chi ha la febbre è intimato a isolarsi fra le pareti; esplodono tensioni nelle case e fra vicini, gli spazi si fanno angusti. Il sintomo del ‘respiro che manca’ tocca molte dimensioni. Capita allora che, famiglie estranee l’una all’altra, relegate in casa dal decreto, spalanchino finestre e improvvisino medley.
Il virus obbliga alla distanza fra corpi mentre invita all’appiccicoso contatto con paura, dolore, rabbia, noia, insofferenza e lutto. Racconta la morte e, assieme, racconta inevitabilmente la vita. Nostalgico dei tempi della guerra e delle buste affrancate, pare educarci all’attesa, all’ambiguità sottesa al concetto di distanza, all’accettazione dell’impermanenza, alla comunione inaspettata e al complesso valore del tempo.