Lo sguardo antropologico sui rifiuti nel continente africano

I ricercatori Luca Rimoldi di UniMiB e Marta Scaglioni di UniVe hanno curato per Utet una raccolta di studi antropologici sui rifiuti in Africa
Image
Un raccoglitore di rifiuti in una discarica africana

Achor Uteno via Pexels

 

L’accumulo dei rifiuti è un problema contemporaneo di rilevanza planetaria, ma è nel Sud Globale che produce le sue conseguenze peggiori. Nelle periferie di molte città africane migliaia di persone di tutte le età vivono a diretto contatto con discariche selvagge a cielo aperto verso le quali confluisce, legalmente e illegalmente, la maggior parte dei rifiuti esportati dai paesi non africani, con gravi ripercussioni sulla salute delle persone e sulla salubrità degli ecosistemi. La presenza pervasiva dei rifiuti nei contesti urbani più marginalizzati ha dato origine a nuove categorie di lavori informali, basati sulla raccolta e sul recupero. Queste forme di sussistenza economica sono spesso indotte da condizioni di estrema povertà ma riducono significativamente l’aspettativa di vita di chi le pratica, oltre a rinforzare gli stigmi sociali subiti. Inoltre, i raccoglitori sono spesso sfruttati dalla criminalità organizzata, che in molti territori africani ha preso il controllo del business dei rifiuti e lo mantiene con la violenza. Ciò nonostante, le politiche locali sostengono più o meno apertamente l’attività dei raccoglitori e delle raccoglitrici di rifiuti, perché da un lato contribuiscono a mitigare l’impatto ecologico delle discariche, in mancanza di altre infrastrutture, dall’altro permettono di comunicare le discariche come asset economici per la popolazione, malgrado l’enorme costo sociale e ambientale.

Luca Rimoldi, ricercatore di UniMIB in Antropologia Culturale, conduce dal 2016 una ricerca etnografica con i lavoratori e le lavoratrici della discarica di Mbeubeuss, in Senegal. Marta Scaglioni, ricercatrice in Antropologia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, si è avvicinata al tema dei rifiuti già a partire dalla laurea magistrale in UniMiB, con una tesi sui raccoglitori di spazzatura del Cairo, e da diversi anni svolge ricerche antropologiche in Tunisia. Insieme hanno organizzato nel 2022 un panel nell’ambito della sesta conferenza dell’Associazione per gli studi Africani in Italia (ASAI), svoltasi all’Università di Urbino Carlo Bo, e intitolata “Afriche del terzo millennio nel mondo globale: sfide, riconfigurazioni e opportunità”. Il loro panel apportava alla conferenza una serie di studi sulle politiche e le modalità di gestione dei rifiuti in Africa, in quanto rivelatorie dei mutamenti e delle tensioni delle società africane e di come i rifiuti influenzino le riconfigurazioni di potere e del mercato del lavoro. Questi studi sono poi confluiti nella raccolta “Antropologia dei rifiuti nelle Afriche del terzo millennio” (2024, ed. Utet) curata dagli stessi Rimoldi e Scaglioni, con una prefazione del professore Gaetano Mangiameli del Dipartimento di Filosofia «Piero Martinetti» dell’Università di Milano.

Le vite intorno ai rifiuti e lo "strabismo" dell’antropologia

L’approccio innovativo del volume consiste nel fornire una prospettiva etnografica al tema dei rifiuti in Africa, guardando nei singoli contesti locali e cercando di capire, tenendo conto delle specificità di ogni territorio, come i rifiuti impattino direttamente sulle vite delle persone e sulle loro aspettative, dal punto di vista culturale, sociale ed economico, e come di rimando queste dinamiche individuali e comunitarie interagiscono con le politiche locali, nazionali e internazionali. Raggiunti telefonicamente, Rimoldi e Scaglioni ci ricordano che “se è vero che il tema dei rifiuti in Africa ha creato un acceso dibattito internazionale su come li produciamo, li gestiamo e li smaltiamo, questo dibattito rimane solitamente confinato a un’analisi di tipo macroeconomico e geopolitico. Solo negli ultimi vent’anni l’antropologia è entrata nella discussione sui rifiuti, non solo per capire come sono arrivati in Africa, ma anche per analizzare il loro impatto concreto sulle traiettorie di vita delle persone. Tendiamo a pensare che il rifiuto sia semplicemente lo scarto di un oggetto che ha perso valore di uso e di scambio, ma in realtà la trasformazione concettuale e pratica di un oggetto in rifiuto avvia un nuovo ciclo di attività umane, di storie e relazioni intorno ad esso.”

Oggi occuparsi antropologicamente di Africa significa inevitabilmente occuparsi anche di rifiuti. La loro presenza è così impattante che diventa specchio di moltissime dinamiche sociali, economiche e di potere. In questo senso l’antropologia offre un punto di vista privilegiato, perché è in grado, per un innato strabismo, di tenere insieme le storie individuali e con i contesti macroscopici in cui si sviluppano, gli aspetti socioeconomici con quelli simbolici e culturali. L’etnografia dei rifiuti è una fonte preziosa di comprensione non solo per la trasversalità delle sue indagini ma anche dal punto di vista metodologico: Rimoldi cita Ugo Fabietti nel descrivere la ricerca etnografica come un “sapere lento”, che richiede un approccio opposto al reportage mordi e fuggi della cronaca d’assalto. Lo studio etnografico dei rifiuti presuppone un inserimento graduale e delicato dentro i contesti sociali coinvolti nelle discariche, che si realizza costruendo rapporti di fiducia con i propri interlocutori. Ci vuole tempo per conoscere le storie dei raccoglitori e delle raccoglitrici, per capire le loro esperienze di stigma, di sofferenza, ma anche di riscatto economico e rivendicazione identitaria.

Lavori informali e stigmi sociali

Nell’Africa contemporanea intorno ai rifiuti si è sviluppato un corposo settore di economia informale. In generale, il lavoro informale struttura molti ambiti economici nel continente africano, al punto che esistono veri e propri corpi sindacali a tutela dei lavoratori informali.
I lavori informali basati sui rifiuti sono nati dall’interazione di più fattori. Innanzitutto, c’è il fattore demografico: in Africa nel 2017 vivevano in città 569 milioni di persone e si stima 
che entro il 2050 le città africane aumenteranno di altri 950 milioni di abitanti, con la popolazione più numerosa e più giovane del mondo. La rapida urbanizzazione può solitamente generare nuove opportunità legate all’economia di agglomerazione e un più facile accesso al lavoro e ai servizi. Tuttavia, questa provoca anche problemi sociali in termini di maggiore pressione sulle infrastrutture, come problemi nelle filiere idrica ed energetica e, soprattutto, nella gestione dei rifiuti. Si stima che la quantità di rifiuti prodotti nell’Africa sub-sahariana sarà triplicata entro il 2050. Se poi si considerano i flussi internazionali di rifiuti, nella fattispecie quelli illegali dall’Europa e dagli Stati Uniti alla costa dell’Africa occidentale, la stima potrebbe anche essere corretta al rialzo. La proliferazione incontrollata delle discariche non regolamentate è un effetto diretto di questo fenomeno. E poiché in ogni cultura esiste una qualche distinzione concettuale tra puro e impuro, tra pulito e sporco, tra strumento e scarto, il rifiuto, che racchiude in sé i poli negativi delle dicotomie elencate (impuro, sporco, scarto) viene inevitabilmente portato ai margini geografici e sociali di un territorio, e diventa un connotato delle persone che vivono in quei margini. Il profilo tipico di un raccoglitore di rifiuti in Africa è infatti quello di una persona in povertà, priva di accesso all’istruzione, spesso appartenente a minoranze etniche e religiose, che vive nelle aree più esterne delle città, laddove i rifiuti vengono sistematicamente scaricati. L’assenza di una barriera innanzitutto fisica tra i rifiuti e le persone finisce per contaminare quest’ultime non solo sul piano igienico ma anche su quello simbolico. “L’aspetto forse paradossale del problema dei rifiuti in Africa è che in tutti i popoli del continente si è sempre praticato il riutilizzo, per cultura e per necessità”, spiega Scaglioni. “Il processo che nelle società occidentali chiamiamo entusiasticamente upcycling esiste in Africa da molto più tempo: è il risultato delle tecniche di ottimizzazione delle risorse e della creatività dei singoli, ma se guardiamo la storia dell’ultimo secolo vediamo anche che dà alle comunità africane il vantaggio di non dover convivere con uno scarto inutilizzabile, perché nessuno lo porterebbe via, semmai si aggiungerebbe agli altri rifiuti che arrivano dal resto del mondo.” Ad oggi la popolazione del continente africano è quella che ha contribuito meno, rispetto al resto del mondo, all’inquinamento di origine antropica degli ecosistemi, eppure ne paga le conseguenze più pesanti.

I flussi di rifiuti e il retaggio culturale del riutilizzo si saldano in Africa con la condizione di povertà di chi vive ai margini delle città, in mezzo a quegli stessi rifiuti. La prossimità forzata con le discariche ha così attivato numerose iniziative auto-organizzate per trasformare la gestione e la rivalorizzazione dei rifiuti in una fonte economica di sussistenza. Queste iniziative hanno creato collateralmente una rinnovata coscienza del proprio ruolo nella collettività, e in alcuni casi sono state usate come leva per ribaltare lo stigma sociale e rivendicare la propria identità. Emblematica è la storia degli Zabbālīn, i raccoglitori di rifiuti del Cairo, su cui Scaglioni ha svolto uno studio etnografico riportato nella raccolta: provengono dalla minoranza cristiana copta e sono discriminati dalla popolazione musulmana del Cairo, perché, oltre al fatto di contravvenire i precetti islamici (per esempio consumano carne suina e bevande alcoliche), maneggiano i rifiuti e quindi ne incorporano l’impurità. Al Cairo hanno cominciato a gestire lo smaltimento degli scarti organici e gradualmente ne hanno preso in carico lo smaltimento su larga scala. Questo carico di responsabilità, nonché di sacrificio, li ha portati a rilanciarsi come salvatori della città. “È stato un misto tra l’opportunità economica di creare una nicchia professionale e l’opportunità di legittimazione del proprio ruolo sociale, con effetti concreti in termini di integrazione”, spiega Scaglioni. “Ci sono molte storie di emancipazione tra gli Zabbālīn, che con la gestione dei rifiuti hanno risollevato le proprie sorti economiche, in alcuni casi arrivando anche a poter pagare gli studi universitari ai propri figli, sottraendoli al destino di raccoglitori.”

L’interdipendenza tra formale e informale

Il governo egiziano tollera il ruolo degli Zabbālīn e spesso li incentiva, seppur non apertamente, perché sono essenziali alla gestione dei rifiuti nella capitale e fanno risparmiare denaro all’amministrazione. Non è l’unico esempio del complicato rapporto tra individui e istituzioni che la ricerca etnografica riesce a rivelare sul tema dei rifiuti: nelle parole di Rimoldi, “l’operato dei recuperatori e delle recuperatrici di rifiuti nasce sempre come risposta inevitabile all’assenza di politiche di gestione strutturale. I lavori informali collegati ai rifiuti rappresentano l’infrastruttura stessa che manca per gestirli e le amministrazioni finiscono per dipenderne, nonostante il costo umano altissimo in termini di salute, violenza, conflitti e forme di sfruttamento.”

Alcuni organismi e istituzioni internazionali stanno implementando progetti di ampio respiro per rendere più ecologica e sostenibile la presenza dei rifiuti nelle città come nei contesti agricoli, nell’ottica di una rivoluzione che sia contemporaneamente «verde» ed economicamente redditizia. Tuttavia, poiché i raccoglitori sono diventati nel frattempo una componente strutturale della gestione dei rifiuti, questi interventi rischiano spesso di minacciare la sussistenza dei raccoglitori. Scaglioni spiega che “le iniziative di organizzazioni no-profit e istituzioni internazionali sono complesse da mettere a terra, perché vengono percepite come intrusioni che sottraggono lavoro ai raccoglitori, oltre a incontrare l’ostilità delle organizzazioni criminali che vogliono mantenere il monopolio nel settore. A questo bisogna aggiungere che le iniziative umanitarie, anche di respiro internazionale, hanno il più delle volte una natura progettuale e non strutturale: durano finché ci sono i soldi per finanziarle, con la speranza che possano avviare un cambiamento permanente, ma una volta concluse lasciano il posto alla gestione preesistente.”
Rimoldi invita a considerare un altro aspetto: “se un progetto istituzionale cerca di estrarre valore e profitto dai rifiuti e parallelamente di risolvere problemi sanitari ed ecologici, non è detto che l’economia che ne risulta redistribuisca poi i suoi profitti alle comunità locali che sono direttamente impattate dal problema.”

D’altra parte, gli studi etnografici sul campo hanno rivelato come anche tra gli stessi raccoglitori e raccoglitrici ci sia chi si è attivato per coinvolgere ong e istituzioni nazionali o internazionali, partecipando a bandi e progetti per attrarre fondi a supporto della gestione dei rifiuti. Un risultato non immediato da immaginare, che rivela quanto lo sguardo antropologico possa cogliere aspetti che non è possibile scoprire senza entrare a fondo nella vita delle comunità, è l’acquisizione da parte di molti recuperatori di nuovi modi di parlare e scrivere. “Sono sempre di più i raccoglitori e raccoglitrici che oggi conoscono il linguaggio dei progetti”, racconta Scaglioni, “padroneggiano il lessico tecnico che serve per partecipare ai bandi e hanno dimestichezza con le procedure burocratiche correlate.” L’impatto dei rifiuti raggiunge anche l’ambito linguistico.

“Non siamo la vostra discarica”

Da un punto di vista europeo ci si potrebbe chiedere se la questione dei rifiuti abbia innescato istanze ambientaliste nelle società africane. Verrebbe cioè da pensare che un contesto inquinato che ospita ogni giorno storie di miseria e sfruttamento acceleri la costruzione di una sensibilità collettiva sul tema. Ancora una volta gli studi antropologici ci permettono di andare oltre una sensibilità prettamente occidentale, peraltro piuttosto recente. Per Rimoldi “ci sono sicuramente associazioni e attori sociali che agiscono in termini ambientalisti, ma è un livello molto superficiale di adesione a un paradigma di sviluppo sostenibile, che oltretutto è appannaggio delle fasce più istruite della popolazione. L’ambientalismo fa parte delle agende politiche, ma dal punto di vista delle persone che ogni giorno sono a contatto con i rifiuti, l’idea di sacrificare la propria vita per il bene del pianeta è irrilevante.” Scaglioni porta la sua esperienza dal Nord dell’Africa: “la sensibilità ambientalista è in realtà sovrastata da una volontà di accesso al consumismo globale, con l’idea di voler recuperare un divario rispetto alle società occidentali. L’ambientalismo in queste rivendicazioni trova ben poco spazio, anzi ha attecchito solo nelle fasce della popolazione più agiate, quelle che possono permettersi di tasca propria un consumo più sostenibile.”

Gli studi urbani in Africa hanno messo in luce il sempre più marcato e profondo divario tra l’espansione delle città e lo sviluppo delle infrastrutture, mostrando come strade, reti elettriche e gestione dei rifiuti fungano da terreno politico di negoziazione e conflitto della cittadinanza. Nell’Africa post-coloniale si è diffusa la coscienza di una nuova forma di colonialismo, il colonialismo dei rifiuti. Il continente è il punto di approdo finale della gran parte dei rifiuti oggi prodotti su scala globale, il che significa che lo stile di vita e di consumo di una persona in altri continenti produce danni in società che quel consumo non possono ancora permetterselo. L’urgenza di equità sovrasta inevitabilmente la sensibilità ambientalista: piuttosto che rimettere in discussione lo stile di vita delle società avanzate, tra i cittadini si tende a notare molto di più l’iniquità di non poter raggiungere lo stile di vita occidentale e di doversi fare anche carico dei rifiuti che produce. Un caso recente è stato l’incidente diplomatico tra Italia e Tunisia dopo che varie inchieste giornalistiche tunisine avevano rivelato l’esistenza di trasporti sistematici di container di rifiuti verso la Tunisia, autorizzati dalla Regione Campania. Le istanze politiche che in Africa attecchiscono più facilmente quando si parla di rifiuti sono quelle che rimandano al profondo senso di ingiustizia suscitato da vicende di questo tipo.

Nel suo saggio “Vite di scarto” (ed. Laterza), Zygmunt Bauman scriveva che il recuperatore è il simbolo della contemporaneità. A proposito di questa suggestione, i curatori della raccolta vogliono ricordarci che al centro di questo tema rimangono le vite di chi per necessità si trova quotidianamente in discarica. La narrazione, romantica e tutta occidentale, dei rifiuti come opportunità non deve essere una scusa per sollevare i paesi industrializzati da una messa in discussione dei propri sistemi di produzione e consumo, né deve trasformare l’etnografia dei rifiuti in una ricerca "feticista" sulle modalità con cui i raccoglitori estraggono valore dalle discariche, o in un elogio romantico della loro eroica capacità di escogitare tecniche di sopravvivenza. “Gli effetti del contatto con i rifiuti, ancorché invisibili oggi, influenzeranno sicuramente il futuro delle nostre interlocutrici e dei nostri interlocutori”, scrivono gli autori nell’introduzione della raccolta. Rimoldi sintetizza così: “estrarre valore di uso e di scambio dai rifiuti ha sempre un costo, che deve essere gestito tenendo conto dei contesti e di chi li abita. Finché in Africa mancheranno le infrastrutture necessarie per invertire la traiettoria dell’accumulo di rifiuti, quel costo sarà pagato in vite umane. La risposta deve venire dalla politica.”

Categoria news